Violenza ostetrica è la definizione data a tutte quelle condotte violente, irrispettose e non consensuali che si possono verificare durante il parto e nel corso della degenza ospedaliera post partum (dall’episiotomia e la manovra di Kristeller effettuate senza consenso e spesso senza una reale necessità, fino alle frasi offensive e oltre).
Può manifestarsi in forma verbale come psicofisica e può produrre effetti anche a lungo termine.
Alcuni Stati hanno scelto di normare la violenza ostetrica, la Spagna ad esempio lo ha recentemente fatto attraverso una modifica di legge, altri no. L’Italia è fra questi ultimi.
Dal 2016, infatti, una proposta di legge attende di essere discussa e approvata. Nel frattempo, però, OMS, Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e Consiglio Europeo hanno più volte affrontato il tema, sottolineandone l’importanza.
La voce che arriva da lontano
Il problema viene affrontato per la prima volta in Sudamerica negli anni novanta. La protesta nasce in questi Paesi che per primi si ribellano a condotte ritenute inaccettabili dando il via ad una serie di studi che porteranno l’OMS ad intervenire.
Siamo nel 2014 quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità si esprime sottolineando i dati preoccupanti che, a poco a poco, emergono dai diversi studi scientifici.
A quel punto è evidente al mondo la portata del problema, così come evidente è la necessità di un’azione decisa.
Lo farà la stessa OMS redigendo le linee guida che fornirà ai vari Stati i quali avrebbero poi dovuto integrarle.
Nel 2019 il tema viene ulteriormente ripreso, questa volta dall’ONU attraverso un documento nel quale si amplia il discorso della violenza ostetrica e ginecologica portandolo sul più ampio piano delle leggi discriminatorie e degli stereotipi di genere.
Il richiamo del Consiglio Europeo sulla violenza ostetrica e ginecologica
E’ a questo punto che interviene il Consiglio Europeo con una propria risoluzione specifica (la risoluzione n. 2306) espressamente rivolta al tema della violenza ostetrica e ginecologica. Oltre a prendere atto definitivamente dell’esistenza di tale sopruso, si sottolinea, cosa quanto mai necessaria e doverosa, lo stretto legame esistente tra condizioni di lavoro complesse e limitate risorse disponibili.
Si associa, dunque, il tema culturale a quello politico-economico richiamando i Governi all’attuazione delle linee guida proposte dall’OMS.
In realtà il Consiglio Europeo si spinge ben oltre. Chiede, infatti, agli Stati membri di raccogliere dati sul fenomeno, sulle procedure mediche in atto e sprona i ministeri della salute di ciascun paese a promuovere studi per indagare il problema.
Richiede inoltre l’attuazione di campagne di informazione e di formazione sul tema e che vengano destinate risorse importanti a questo scopo.
In altre parole tutto parrebbe finalmente muoversi nella direzione di una reale presa di coscienza del problema se non fosse che, in alcuni Paesi, le indicazioni vengono recepite e messe in atto e, in altri, meno.
Violenza ostetrica in Italia: il ritardo normativo
Nel nostro Paese la proposta di legge Norme per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico viene presentata nel 2016 proprio in risposta a quanto previsto dall’OMS.
Da allora, però, non si è ancora trasformata in Legge.
Ad oggi, dunque, non esiste uno specifico reato in termini di violenza ostetrica punibile per legge e si rimanda, in questi casi, ad altra tipologia di reato quale ad esempio la violenza privata, la violenza sessuale per i casi più gravi e le lesioni personali in caso si provochi una malattia fisica o mentale nella donna.
Il vuoto normativo, dunque, non aiuta il nostro Paese ad evolvere nella direzione della tutela della donna e del suo bambino.
Non solo, come spesso accade in Italia, tutto viene demandato all’associazionismo che, per quanto attivo, non può essere il tutore preposto ad assolvere compiti che andrebbero assolti entro e con il supporto della norma.
Violenza ostetrica in Italia: 2017 un’indagine Doxa-Ovoitalia
Nel 2017 Ovoitalia – Osservatorio sulla Violenza Ostetrica in Italia in collaborazione con le associazioni La Goccia Magica e CiaoLapo Onlus affidano a Doxa la prima ricerca nazionale sul tema “le donne e il parto”.
Ne esce un quadro completo che delinea l’entità del problema e la sua diffusione. I numeri, infatti, parlano di una stima di un milione circa di mamme (siamo intorno al 21% del totale) che negli ultimi 14 anni (rispetto al 2017) dichiarano di avere subito, al primo parto, un maltrattamento fisico o verbale.
Seconda osservazione rilevante è che, a seguito di ciò, si valuta che circa 20.000 bambini non nascano ogni anno per via dell’assistenza sanitaria ricevuta al primo parto.
Si rileva, infatti, che circa il 6% delle mamme che hanno subito un trauma al primo parto scelgono di rinunciare ad avere altri figli, dato che, oltre che allarmante, è davvero difficile da accettare.
Senza riportare ulteriori dati al riguardo (che ciascuno può trovare nell’articolo in bibliografia) ciò che mi preme sottolineare è che da anni osserviamo il problema dalla parte, giustamente, delle madri, ma non riusciamo ad indagarlo dalla parte degli operatori.
Ciò non per mancanza di volontà (o forse anche) ma soprattutto perché è estremamente complesso indagare in questo senso se il professionista è rappresentato solo da associazioni di categoria o dalle varie Direzioni Sanitarie.
Credo che le loro voci vadano cercate e vada offerta la possibilità di esprimersi senza timore.
Sono convinta, ma forse sbaglio, che se dovessimo indagare approfonditamente in quella direzione scopriremmo che, al netto dei cattivi operatori che esistono ad ogni latitudine, la maggioranza vorrebbero denunciare certe pratiche e combatterle ma non sono messi nelle condizioni di farlo.
Una voce dall’interno
A riprova della mia sensazione riporto lo stralcio di un’intervista rilasciata nel dicembre del 2019 a OsservatorioDiritti. A parlare è il ginecologo ostetrico della clinica Mangiagalli Dott. Niccolò Giovannini che disse:
La struttura ospedaliera è stata aziendalizzata e oggi si cerca di ricevere più pazienti possibile, senza prendersi davvero cura di ciascuno. Questo porta a una deumanizzazione della pratica medica, logica ancora più dannosa quando si tratta di un momento unico come quello del parto, dove basta poco per inceppare meccanismi raffinati ma fragilissimi che la natura ha messo in campo.
E ancora:
Gli operatori sanitari non rispettano i tempi naturali della donna e ragionano come in una fabbrica: di fronte a te non c’è più una persona ma una biomacchina, dove da A deve uscire B. Le emozioni sono completamente azzerate: questo atteggiamento, oltre a non essere rispettoso, non permette alla madre il rilascio delle endorfine e di tutta una serie di ormoni che favorirebbero l’espulsione del neonato. Siamo schiavi di una logica di catena di montaggio.
Violenza ostetrica: il problema esiste
Il problema, è evidente, esiste e sarebbe ipocrita negarlo.
La cronaca, purtroppo drammaticamente, lo riporta ciclicamente a galla e quando ciò accade, per un certo periodo, diventa emergenza.
In un mio post di Instagram ho voluto sottolineare che, a mio avviso, non è trattando il problema come “emergenza” che lo si affronta nella maniera corretta.
Nell’emergenza, infatti, si reagisce d’impulso, si è mossi dall’urgenza di rispondere ad un bisogno immediato che richiederebbe, invece, maggiori approfondimenti e dialogo tra le parti.
Trovo ingiusto, ed anche non funzionale allo scopo, cercare (sempre perché in emergenza) un capro espiatorio che diventi catalizzatore di tutti i mali.
Per indole, ma anche per orientamento professionale, ritengo più costruttivo fornire i mezzi e gli strumenti affinché si indaghi cercando risposte ampie e condivise.
Il punto, dunque, è come affrontare questo innegabile problema.
Quali strumenti scegliere e quali modalità affinché il dibattito diventi costruttivo e capace di portare reali benefici alle donne. Individuare un modo per farlo senza pregiudizi ma anche senza rigide prese di posizione.
In altre parole gettare le basi per un dialogo che non vuole convincere ma approfondire. Questo perché il fine ultimo deve essere la tutela della persona e della sua integrità.
Dare voce alle parti
Non vi è dubbio che sono molti i temi scottanti, dibattuti e di grande attualità che richiedono un approccio ampio e partecipato.
La violenza ostetrica è uno di questi.
Già nel 2016 vi fu un forte richiamo al tema da parte della stampa e dell’opinione pubblica. Fu talmente forte che quasi si arrivò ad una legge ad hoc che mettesse ordine nella materia. Il tentativo fallì, ed oggi, a distanza di anni, siamo nuovamente a cercare di fare chiarezza.
Cosa ci ha insegnato quella prima, forte e importante presa di posizione?
Forse che le battaglie per i diritti sono lunghe, complesse e vanno affrontate, sì con coraggio, ma anche con equilibrio.
Per questo credo che si debba dare voce alle parti, chiamare in causa le donne che, legittimamente, si sono sentite abusate senza però dimenticare di ascoltare quegli operatori che vorrebbero potersi esprimere al netto delle polemiche.
Lo spunto offerto
Facciamo un passo indietro e torniamo al 2016 quando il tema della violenza ostetrica venne ampiamente dibattuto in seguito ad un ennesimo caso di cronaca.
Rileggendo un articolo di Monica Lanfranco pubblicato sul blog de Il Fatto Quotidiano nel marzo di quell’anno, mi sono imbattuta in un passaggio a mio avviso molto interessante.
Si faceva notare, infatti, che accanto alle denunce delle madri vi era, forte e chiara, la voce delle ostetriche specializzande che lamentavano una distanza troppo ampia tra ciò che avevano studiato sui libri e ciò che, di fatto, era la prassi che sperimentavano in corsia.
Sono queste le voci che oggi, mi pare, manchino all’appello.
Sono queste le voci che sarebbe necessario aggiungere per permettere un confronto che porti a qualcosa di nuovo e condiviso.
La voce che manca nel dibattito sulla violenza ostetrica
Abbiamo ascoltato le donne, le mamme portatrici, chi di esperienze positive e chi, invece, di esperienze dolorose.
Abbiamo ascoltato e/o partecipato ai dibattiti, sentito gli esperti, i meno esperti e l’opinione pubblica attraverso i social.
Abbiamo ascoltato pressoché tutti i portavoce di tutti, ma gli operatori (e non i loro rappresentanti), chi lavora quotidianamente in ospedale e in clinica sono rimasti ai margini della discussione.
La loro voce è stata e continua ad essere flebile, vuoi per scelta e vuoi per necessità.
Indagare il loro pensiero, ascoltarlo, farlo emergere senza pregiudizi sarebbe un modo per conoscere dal di dentro l’altra faccia della luna.
Parlo da ostetrica, certo, non per difendere a priori una categoria ma nemmeno per assistere impassibile ad una “condanna” senza appello.
Il cambio culturale che ancora manca
Fatte tutte le considerazioni del caso, analizzata la normativa più o meno lacunosa, le procedure mediche che discendono da protocolli internazionali di carattere scientifico, manca sempre un pezzetto. Quel pezzetto di discorso, così importante e poco ricercato, è il cambio di passo culturale necessario ad affrontare un problema come questo.
La donna è donna sia quando è in gravidanza che quando fa l’ostetrica, l’infermiera, la ginecologa. La donna resta donna nel diventare madre e la sua voce va ascoltata sempre, soprattutto nel momento del parto.
Se da un lato le scuole di ostetricia insegnano ad accompagnare la donna verso la nascita, dall’altro esistono poi le reali condizioni in cui ciò avviene. Si tratta di condizioni che, molto spesso, si scontrano con gli insegnamenti ricevuti. Un reparto di ostetricia e ginecologia è formato da varie figure, ciascuna con compiti e responsabilità precise ma, su una cosa andrebbero formati tutti allo stesso modo, ed è la comunicazione empatica.
Manca, più in generale, una cultura dell’accoglimento in ambito sanitario (e non solo) che viene delegata alla volontà del singolo operatore il quale, però, deve interagire con altri talvolta subendone le decisioni, le scelte e i comportamenti.
Dentro le tante denunce delle donne spesso si incontra proprio questo.
Un agito del singolo professionista o al massimo dei suoi più stretti collaboratori che stride, in un senso o nell’altro, con l’atteggiamento dei colleghi.
Credo che nella nostra società si sia raggiunto un buon livello di formazione dei formatori ma, non altrettanto buona, sia la qualità della formazione professionale continua per chi è stato formato in un passato meno recente.
Il cambio culturale di cui sto parlando è, in definitiva, quello necessario sul piano formativo che, più veloce da produrre di quello a livello di Paese, potrebbe nel breve periodo dare buoni frutti.
Più onestà intellettuale
Quando si ragiona per partito preso, per ideologie o per convinzioni legittime ma estreme, si giunge talvolta a trasformare il significato di ciò che viene detto per renderlo funzionale al proprio discorso.
Non sempre si tratta di malafede, anzi, capita che proprio in buona fede ciò avvenga. Ciò, però, non giustifica del tutto certi comportamenti.
Un esempio lampante che più volte mi è capitato di osservare è la narrazione del dolore durante il parto.
Come docente, io stessa nei miei corsi e nelle mie comunicazioni sottolineo che il dolore, nel corso di un travaglio e di un parto fisiologici senza problemi, va ascoltato, accolto e interpretato. Spiego che si tratta di una serie di segnali del bambino alla madre e viceversa e che per questo, con i giusti tempi ed i corretti modi va accolto e vissuto.
Questo però non significa che io stia dicendo alle future mamme che dovranno soffrire disumanamente o che per rispettare la natura dell’evento dovranno essere lasciate in travaglio per giorni senza supporto. Chi tentasse di farmi dire una cosa del genere starebbe tradendo il senso stesso delle mie parole. Capita, invece, che simili storture distorsioni avvengano e che, preso il discorso di un interlocutore, lo si spezzetti e decontestualizzi modificando radicalmente il senso.
Al contrario, credo che fare distinzioni, non generalizzare, guardare i dettagli in un’ottica di insieme faccia la differenza.
Per questo motivo non mi sento in diritto di schierarmi dogmaticamente da una parte o dall’altra.
Per questo motivo cerco sempre di prendere una posizione che mi permetta di restare in ascolto. La mia scelta quotidiana è continuare a stare dalla parte delle donne, in particolare quando chiedono supporto, aiuto e sostegno.
Violenza ostetrica: cosa puoi fare, futura mamma
Informarsi
Per prima cosa informati. Non c’è soluzione possibile che possa eludere l’informazione consapevole. Esistono tanti modi per ottenere indicazioni precise e attendibili. Scopri in cosa consiste la violenza ostetrica. Informati su quali condotte sono ritenute lesive della tua integrità come donna e come mamma.
Capisco bene che tutte noi in gravidanza vorremmo essere rassicurate e non spaventate. Informarsi, però, serve anche ad imparare a controllare e gestire ansia e paura.
Puoi chiedere indicazioni all’operatore sanitario di tua fiducia, puoi affidarti alle associazioni, ai consultori, puoi cercare tu stessa le indicazioni che ti servono. In qualunque modo tu scelga di farlo, l’importante è che tu lo faccia.
Fare domande
Una volta raccolte le informazioni che ti servono, devi vagliarle. E’ possibile che in questo passaggio ti serva l’aiuto di qualcuno più esperto di te di cui poterti fidare. Fare domande in anticipo equivale ad accrescere la consapevolezza che ti servirà quando, durante il parto, non sarai nelle condizioni ottimali per porre troppi quesiti.
Fare domande adesso significa comprendere meglio cosa accadrà in sala travaglio e in sala parto. Significa anche che, se vedrai accadere qualcosa che già sai essere normale durante il parto, non sarai preoccupata. Al tempo stesso, se ti sarai adeguatamente informata prima saprai riconoscere una qualsiasi situazione inadeguata.
Coinvolgere il partner o il caregiver
Coinvolgi fin da subito il partner o la persona di tua fiducia che ti assisterà durante il parto. Andate insieme a visitare gli ospedali, a parlare con il personale, a conoscere l’ambiente e le prassi. Chi ti accompagnerà sarà in quei momenti più lucido e meno stanco di te ed essendo informato, potrà intervenire laddove fosse necessario.
Scegli accuratamente la struttura sanitaria
La scelta della struttura sanitaria dove partorire non è cosa di poco conto. Se la struttura dispone di un buon sito internet, visitatelo. Sapere se si pratica il rooming-in, secondo quali criteri e con quali norme interne è molto importante per affrontare consapevolmente e serenamente il periodo di degenza. Sapere quale sia il rapporto tra operatori e numero di pazienti o quanti sono i parti annui, sono dati importanti ai fini della scelta. Chiedere di visitare la struttura e conoscere il personale in anticipo è fondamentale. Infine, le esperienze di altre mamme posso anch’esse aiutarti se si tratta di persone del cui giudizio ti fidi.
IN CONCLUSIONE:
- Nessuno nega l’esistenza di un problema
- Scegliere un approccio al tema che sia informato, equilibrato e razionale aiuta te e la causa
- Informarsi e coinvolgere chi ci accompagna sono passi necessari per sentirsi meglio tutelate
- Parlare con gli operatori offre la possibilità di capire se si tratta delle persone che vorremmo accanto a noi al momento del parto
- Seguire corsi preparto completi, esaustivi e adatti al nostro sentire ci aiuta a prepararci a quell’evento
- Spegnere i social, abbassare le voci che ci circondano per un po’, se siamo in over di informazioni, è un ulteriore modo per proteggerci
- Ricordiamoci sempre che esistono esperienze positive e che questo non significa che sono state fortunate ma che nella conta dei grandi numeri esistono, come sempre, la quota parte positiva e quella negativa
- Individuate uno o più sanitari di riferimento cui fare ricorso durante la gravidanza e possibilmente durante il parto. Loro vi sapranno sostenere in caso di bisogno
- Più conoscerete più sarete libere di scegliere e questo vale per tutto, a prescindere dal contesto
ATTENZIONE: qui di seguito avrai la possibilità di partecipare ad un’iniziativa, da me proposta, attraverso la compilazione di un breve questionario ANONIMO per DARE VOCE ALLE MAMME e raccogliere la VOCE DEGLI OPERATORI.
Dal 21 gennaio scorso si sono spese molte parole in merito alla solitudine delle neomamme in ospedale e, al supporto non sempre adeguato, che viene loro offerto.
Bibliografia
- https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/134588/WHO_RHR_14.23_ita.pdf;jsessionid=A94FBBAEF74B8048D427924A3182C45D?sequence=17
- https://digitallibrary.un.org/record/1641160?ln=en
- http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-en.asp?fileid=28236&lang=en
- https://www.camera.it/leg17/126?tab=2&leg=17&idDocumento=3670&sede=&tipo=
- https://documenti.camera.it/_dati/leg16/lavori/schedela/apriTelecomando_wai.asp?codice=16PDL0015620
- https://ovoitalia.wordpress.com/indagine-doxa-ovoitalia/
Ciao Alessandra, questo è il riassunto del mio parto nell’ospedale di Campobasso nel Molise. In quel momento ne ero all’oscuro, ma oggi so bene di cosa parliamo. Ho ancora tutte le scene impresse nella mia mente e molto spesso ci ripenso sempre. Ad oggi posso solo dire che per fortuna mia figlia sta bene nonostante le 72 ore senza liquido amniotico e 2 giri di cordone. Grazie per quello che fai, ti seguo sempre
Ciao Livia, mi dispiace per l’esperienza che hai vissuto.
Se hai bisogno di parlarne per segnalare l’accaduto o per ottenere indicazioni su come procedere per ottenere supporto per rielaborare l’accaduto sono a tua disposizione.
Un abbraccio