Quando ho iniziato a desiderare un figlio?
Non saprei indicare un momento preciso. Scavando nella memoria, ho la sensazione di averlo sempre voluto, forse addirittura prima di incontrare quello che sarebbe diventato mio marito.
Quel desiderio di maternità è sempre stato lì, nascosto da qualche parte dentro di me. Un’attrazione quasi ossessiva per la magia della gravidanza, per il mistero della fertilità, per il potere straordinario del corpo femminile nel generare vita. Mentre le mie coetanee si interessavano a Nike Classic e pantaloni a zampa, io parlavo di ovulazione e giorni fertili. La moda non mi ha mai appassionata, ma sapevo tutto di fertilità, contraccezione e cicli mestruali. Forse è stata questa mia passione, o forse la nascita di mia sorella quando avevo undici anni, a orientarmi verso il mio futuro da ostetrica.
Che magia la gravidanza, due cellule microscopiche che si incontrano e danno vita a un embrione che cresce piano e silenzioso, nutrendosi di ciò che la madre, inconsapevolmente gli offre. La donna si abitua gradualmente alla sua presenza e, mese dopo mese, un’energia inspiegabile inizia a circondarla. Una magia che a nessuno può sfuggire.
Ricordo con esattezza il momento in cui questa magia ha iniziato a spaventarmi. Non la gravidanza in sé, ma la paura di non poterla vivere. All’epoca ero sposata da poco. Con mio marito non parlavamo ancora di figli, immersi nel lavoro e nella nuova casa. Lavoravo in un ospedale più grande di quello in cui ero stata fino a quel momento, con casi clinicamente più complessi.
Una sera, durante un turno in reparto maternità, ricoverai una paziente. Era visibilmente provata, reduce da un prelievo ovocitario avvenuto quella stessa mattina. Stava provando ad avere un bambino con la procreazione medicalmente assistita, ed era il suo quarto tentativo, dopo anni di speranze disilluse. Avevo studiato l’infertilità di coppia nei libri, l’avevo analizzata dal punto di vista medico e scientifico e adesso era davanti a me, la potevo intravedere nello sguardo stanco e provato della mia paziente, peraltro più giovane di me.
Una frase che mi disse rimase impressa nella mia mente: “Non lo auguro a nessuno.” Fu allora che la paura si insinuò dentro di me. Era chiaro che non fosse un percorso facile, ma paragonare l’infertilità ad una malattia mi sembrava eccessivo, eppure quella donna lo aveva fatto e lo sconforto nei suoi occhi non lasciavano molti dubbi.
A volte si immagina che per un’ostetrica sia più facile affrontare la ricerca di una gravidanza, ma chi lo pensa è sicuramente fuori strada. E se fosse stato anche il mio destino? Quando io e mio marito abbiamo deciso di cercare un bambino, ero ottimista. Ma col tempo, quell’entusiasmo si è sgretolato. Non succedeva.
Quanti test di gravidanza smontati per vedere meglio linee trasparenti che esistevano solo nella mia immaginazione. Quante volte ho sperato, per poi vedere tutto crollare alla comparsa di un ciclo mestruale indesiderato. Cercavo di godermi la vita per quello che offriva, senza figli, negavo di volerne, non potevo ammettere a me stessa e agli altri di non riuscire a generare la vita. Penso di aver toccato il fondo in quel periodo, anche se non l’ho mai raccontato a nessuno. L’infertilita mi ha costretta a misurarmi con un grande senso di inadeguatezza, di incapacità, di imperfezione, che ha scavato un solco nella mia autostima.
Essere ostetrica, in quel momento, non ha aiutato. Ogni giorno incontravo donne incinte che mi chiedevano: “E tu? Quando diventi mamma?”. Sorrisi, parole di circostanza. Ma dentro di me, ogni domanda era sale su una ferita aperta. Seguivo tante donne che, grazie alla PMA, erano riuscite ad avere il loro bambino. Le loro storie erano una speranza, eppure non bastavano a darmi la forza di intraprendere quel percorso. Troppo spaventoso, troppo incerto. E così, per anni, ho rimandato.
Il 18 novembre 2016 mi sono svegliata con una strana sensazione di felicità. Avevo sognato di avere un bambino. Quel sogno era stato così vivido, così reale, che al risveglio ne sentivo ancora il calore addosso.
Per la prima volta, stavo davvero considerando l’opzione della PMA. Un’ora dopo, l’ospedale mi ha chiamata per fissare la data del pick-up ovarico. Avevo rimandato per mesi. Gli esami erano pronti, il mio cuore no. Mancava solo il coraggio. Alla fine, una data: gennaio 2017. In quei tre mesi di attesa, quel coraggio l’ho trovato. Non so come, ma era lì, tra la speranza e la voglia di provarci davvero. Ero ottimista. A ogni esame mi sentivo in gravidanza, speciale anche senza aspettare un bambino. Ricordo con precisione la prima iniezione di ormoni. Ero nel bagno di un locale di musica live in Svizzera, mentre mio marito suonava e io cantavo con la nostra band. Era il giorno giusto per iniziare la terapia. Tremavo. Avevo paura di stare male, come se mi stessi iniettando del veleno invece che ormoni. Conservo ancora la foto di quella siringa, primo passo verso la nostra avventura che era appena iniziata.
Il 24 gennaio 2017 è stato il giorno del pick-up.
Ero terrorizzata all’idea di affrontare quell’intervento. Non avevo mai subito un’anestesia generale e, quando avevo chiesto se fosse possibile evitarla, l’infermiera mi aveva risposto con un sorriso teso: “Se vedesse l’ago che usiamo, cambierebbe subito idea.” A quel punto, discutere mi sembrò inutile. Con un respiro profondo e un ultimo sguardo al medico, mi sono lasciata accompagnare in sala operatoria.
Dopo l’intervento, ancora sotto effetto dei farmaci, dicevo a mio marito che avrei voluto appendere una foto del medico in casa, tanto ero grata per come si era svolto tutto. Non avevo sentito nulla ed ero felice, ancora non me lo avevano detto ma io dentro di me già lo sapevo, era andata bene. Poi, l’attesa. Nove ovuli e tre giorni interminabili. Tanto sarebbe servito perché crescessero in laboratorio, mentre i medici ne valutavano le caratteristiche e il potenziale di dar vita a una gravidanza evolutiva.
Durante quel periodo snervante, il laboratorio non poteva darmi alcuna informazione. Solo alla fine del weekend avrei saputo quanti ne erano sopravvissuti, con quante cellule e, soprattutto, quante possibilità avessero di diventare il mio futuro.
Quando finalmente il laboratorio riuscì a chiamarmi, la comunicazione fu stringata: niente dettagli, solo l’istruzione di presentarmi il giorno successivo in ospedale, a digiuno, per la procedura di transfer. Sarebbe stato il momento decisivo: gli embrioni migliori, selezionati per il loro potenziale, sarebbero stati inseriti nell’utero con una cannula, nella speranza che riuscissero ad attecchire e crescere. Gli embrioni “buoni” erano due: uno con ottime caratteristiche, l’altro con una sopravvivenza più incerta.
Il medico esitava a trasferirli entrambi. Ero giovane, 31 anni, con alte probabilità di successo, il rischio era una gravidanza gemellare. Ma per me non c’era alcun dubbio: tra i miei nove embrioni iniziali, solo tre erano sopravvissuti, e uno sarebbe stato congelato. Volevo dare a quei due la loro occasione.
Ricordo di essere uscita dall’ospedale con una certezza incrollabile: ero incinta e aspettavo due gemelli. Erano dentro di me, nel mio utero, eppure un’ansia irrazionale mi tormentava, come se, per qualche inspiegabile motivo, potessero scivolare via.
La sera prima del test, ero convinta che tutto fosse finito. Avevo tutti i sintomi del ciclo, uno per uno. Non ne mancava nessuno: il dolore, il senso di gonfiore, persino quell’irritabilità che mi aveva sempre annunciato l’arrivo delle mestruazioni. E con loro, la solita ondata di rabbia e delusione. Perché? Cosa non andava in me? Perché non ero capace di avere un bambino?
Il giorno dopo era domenica. Dovevo accompagnare un gruppo di donne in gravidanza a visitare la sala parto, per aiutarle a immaginare cosa le aspettava. Ironia della sorte.
Eppure, quel mattino sentivo qualcosa di strano dentro di me. Un’ombra di ottimismo, inspiegabile. Un lieve fastidio alla pancia, una sensazione diversa. Sapevo che poteva essere un iperstimolo ovarico, una conseguenza della terapia ormonale, ma… e se fosse stato qualcos’altro?
Non sono riuscita ad aspettare. Non sono nemmeno riuscita ad arrivare a casa.
L’ho scoperto nel bagno di un centro commerciale.
Quante volte avevo visto nei film qualcuno chiedersi: “Sto sognando o sono sveglio?” Mi era sempre sembrata una frase esagerata, poco credibile. Eppure, in quel momento, l’ho capita fino in fondo. Con una mano tenevo il test, con l’altra il telefono. La linea era sottile, quasi impercettibile, ma c’era.
“Ti prego, dimmi che non sto sognando.”
“Ti prego, dimmi che sono sveglia.”
Ero sveglia, ero incinta, incinta di una piccola linea sbiadita ma che questa volta non era frutto della mia immaginazione. C’era davvero.
Prima di viverlo sulla mia pelle, avevo conosciuto tante coppie in attesa. Raccontavo loro della gravidanza, della maternità, del grande cambiamento che li aspettava. Cercavo di prepararli, di guidarli, ma in fondo era come descrivere la trama di un film che non avevo mai visto davvero. Quel film lo avevo sentito raccontare mille volte, in mille versioni diverse. Avevo visto le persone uscirne commosse, trasformate, avevo letto le loro emozioni nei volti, interpretato i loro racconti, a volte persino semplificato tutto con leggerezza. Ora, finalmente, il biglietto d’ingresso era anche per noi. Un test di gravidanza ci aveva illuminato la vita. C’era così tanta luce che, paradossalmente, mi sembrava di non vedere più nulla. Uno, due, maschio, femmina… che importava? C’era una linea. Ed era tutto ciò che contava. Il nostro film era iniziato così. E con lui, la paura che qualcuno ci facesse uscire dalla sala prima ancora che la proiezione iniziasse davvero. Credo che per i futuri papà la trasformazione in genitori sia più lunga, più complessa. Non hanno la possibilità di sentire, giorno dopo giorno, una vita crescere dentro di sé.
Alla prima ecografia si vedeva solo una piccola camera gestazionale, segno che solo uno dei miei piccoli ce l’aveva fatta. Quello era il suo spazio, il luogo in cui avrebbe iniziato a crescere, a prendere forma, a diventare nostro figlio. Da quel momento, ho deciso di vivere ogni istante della gravidanza con gratitudine assoluta. Ho iniziato a custodire ogni dettaglio, ogni visita, ogni ecografia, come frammenti preziosi di un viaggio unico.
Che emozione incontrare di nuovo le mie “mamme” nei corsi preparto, questa volta con una consapevolezza nuova. Finalmente, provavo sulla mia pelle tutto ciò di cui avevo sempre parlato. Le nausee? Le amavo. Perché erano il segno che il mio piccolo stava bene, che tutto procedeva esattamente come doveva.
C’era poco di naturale nel percorso che avevamo affrontato per arrivare fino a lì. Eppure, ora tutto sembrava perfettamente naturale. Lui era con noi. Era dentro di me. E quando ho iniziato a sentirlo muovere per la prima volta, tra tutte le emozioni della gravidanza, quella è ancora oggi la più potente, la più commovente. Il tempo è passato in un soffio, eppure è stato ricco, denso, saturo di gioia. Ogni emozione l’ho vissuta fino in fondo, senza lasciare spazio alla malinconia, senza risparmiarmi nulla.
Scoprire che aspettavo un maschietto, durante l’ecografia morfologica, ha scosso per un attimo l’equilibrio che si era creato dentro di me. Non so perché, ma ero convinta che fosse una femmina. Forse un’idea senza logica, forse un’illusione del mio istinto materno, ma fino a quel momento ero certa di portare in grembo una bambina. E invece, era un maschietto. Il mio sesto senso aveva preso una bella batosta.
Mi sono bastati venti minuti per lasciarmi travolgere da una gioia ancora più grande, ancora più intensa. Era lui, il nostro bambino. Lo avremmo chiamato Aaron, con due A. Un nome che io e mio marito abbiamo scelto senza esitazione, come se fosse sempre stato lì, aspettando di essere pronunciato. Da quel momento, lui e io abbiamo iniziato a fare tutto insieme. Mi accompagnava ovunque, assaporava con me ogni sapore, ogni emozione. Giorno dopo giorno, il nostro legame cresceva, la nostra simbiosi diventava più profonda. Lo conoscevo già. Sapevo che era un bambino tranquillo, che i suoi movimenti erano decisi ma pacati. Non vedevo l’ora di stringerlo tra le mie braccia. Di scoprire i suoi lineamenti, di contare le sue minuscole dita, di sentire il suo profumo per la prima volta.
Non avevo mai pensato al parto, e ancora oggi non so spiegarmi il perché. Forse, dentro di me, credevo che la gravidanza sarebbe durata per sempre. Non avevo considerato che quella magica simbiosi, quella sensazione di completezza assoluta, un giorno avrebbe dovuto trasformarsi in qualcosa di nuovo. Forse per questo, quando sono arrivate le prime contrazioni, non le ho prese sul serio. Mancavano ancora due settimane al termine, il mio istinto mi diceva che era troppo presto, così ho minimizzato e atteso. Poi, la rottura delle acque. Un altro colpo al mio sesto senso.
Com’era possibile che non mi fossi accorta che stava davvero accadendo?
Volevo abbracciare il mio bambino, ma non ero pronta a separarmi da lui. Non ero pronta a lasciare andare quella simbiosi, la nostra magia, la nostra gravidanza. Forse è per questo che alla fine è nato con un cesareo, nel mezzo del travaglio. La notte più bella della mia vita. L’ospedale brulicava di neonati, ma il mio era l’unico che contava.
Spero che queste parole possano essere un conforto, una carezza per l’anima di chi sta vivendo questa esperienza o, come me, l’ha già attraversata. Ogni storia è unica, ma condividere le nostre esperienze può aiutarci a sentirci meno soli e a trovare forza nella condivisione. Se ti va, lascia un commento qui sotto: la tua voce è importante e può essere di supporto per qualcun altro.
Se vuoi approfondire il tema dell’infertilità e della violenza ostetrica, sotto trovi il link al mio TEDx Speech in cui ho portato alla luce queste tematiche, con la speranza di aprire un dialogo sincero e costruttivo. Grazie per aver letto e per essere parte di questo percorso.
Ho divorato questo racconto, perché è molto simile al mio! Certo ci sono dettagli diversi. La PMA è meravigliosa e disumana. Toglie tutto ad una donna: il suo corpo, la sua mente, il suo cuore. Ma è splendida perché è legata alla speranza. Mi ha dato tanta forza. Grazie alla PMA è nato Leo. Ho aspettato tanto, perché aspettavo LUI. Grazie per questo racconto.
Mi sono commossa leggendo questo racconto. Penso che siano emozioni che accomunano tutte le donne che intraprendono il percorso della PMA: paura e speranza che si mescolano insieme.
Non è semplice, non è facile…ma con queste parole ha aperto, anzi spalancato, la porta della SPERANZA. Grazie!
Ciao,grazie per avermi dato la possibilità di leggere la tua storia..
Io ho già un bambino di 9 anni e da circa 2 anni sto provando insieme al mio compagno ad avere uno..
Abbiamo iniziato il percorso di PMA,abbiamo iniziato le punture di ormoni da qualche giorno..
Anche io come te ho sognato il mio bambino,e nel mio corpo,nel mio cuore e nella mia testa c’è questa convinzione,che tra poco avrò il mio bimbo tra le braccia e tutto questo mi fa affrontare con coraggio il PMA..
Siamo in tante a soffrire ma sono sicura che c’è la faremo.. crediamoci ❤️
Bel racconto importante narrarlo essendo a volte ancora un tabù ahimè! Nel male, è stata perfino fortunata a riuscirci al primo colpo. C’è chi proprio non ci riesce. A me è andata bene al 3° tentativo, e ora ho due gemellini 🙂
Occhi lucidi, sorrisi falsi e parole strozzate per tutte le volte che qualcuno ha detto “sei giovane, strano che a te non vada al primo colpo”, “e un figlio quando?”, “sei in salute, perché toglietela?”, “hai provato una volta, penso sia sufficiente” ,”se non ci pensi arriva”, “se non arriva non è destino, lascia stare”… quante di noi hanno dovuto sentirsi fare queste domande? Quante di noi si sono nascoste in bagno a piangere, dopo la leggerezza con cui vengono pronunciate queste frasi?
La pma ti toglie energia, soldi, tempo.
La pma odora di disinfettante, di speranze ancora una volta andate in frantumi, di anestesia e mascherine.
Ti lascia lividi, sia sulla pelle che sul cuore. Cicatrici che rimarranno li per sempre.
Ma ti da anche forza per continuare a riprovarci, speranza che prima o poi arrivera anche il tuo momento.
Ti fortifica il legame con il partner, nonostante le mille sfide siete li a combatterle, insieme.
Ho perso il conto del numero di punture fatte, cosi come il numero di esami del sangue, puntuali ogni settimana a giorni alterni. Conoscevo per nome tutte le infermiere, avevo imparato i loro turni. Il farmacista era diventato il mio migliore amico.
Mi hanno rivoltata come un calzino, non si spiegavano perche’ a 30 anni nessun transfer andasse a buon fine.
Prima della pma due aborti spontanei, un’extrauterina, poi, 3 pickup e 4 transfer, ma finalmente, dopo 3 anni di attesa, di vita in standby (perche diciamolo, per quanto si provi a vivere normalmente, il pensiero è sempre li, fisso in testa) sono riuscita ad abbracciare mio figlio.
Una paura tremenda durante tutta la gravidanza che quel sogno, che sembrava stesse diventando realtà, potesse sgretolarsi. Un nodo allo stomaco ad ogni ecografia, 9 mesi passati sull’attenti ad ogni segnale per essere sicura tutto procedesse al meglio.
E ora è qui con me, abbiate fiducia!
Bellissimo racconto, molte emozioni molto simili alle mie.
Io e mio marito dopo 10 anni di tentativi sempre con un pugno di mosche in mano, arrivava sempre quel maledetto ciclo e se non arriva era perché saltavo direttamente il mese, pianti su pianti.
Poi è arrivato il 18 Giugno 2021 che ho sentito lei vicino a me più di tutte le altre volte ( anche se era da quando avevo 3 anni che non la vedevo più ) e gli chiesi di aiutarmi ad avere un bambino, 5 minuti dopo ho incontrato mio cognato che mi ha consegnato il numero della clinica Futura che gli avevano dato esattamente 5 minuti prima e, dopo tre pick-up, è arrivato lui, il mio amore più grande Raul esattamente 3 anni dopo avere chiesto a mia nonna Anna di aiutarmi.
Sei anni di maledetta infertilità, di cui 4 vissuti in PMA. 2 pickup, 2 ovodonazioni, 4 transfer. Tante tante lacrime. Tanta tanta paura. Senso di inadeguatezza. Leggevo storie a lieto fine come questa e pensavo “perché a me non succede? E se non succede mai?” Poi finalmente, quel messaggio “beta positivissime”. 9 mesi di ansia, attenzione a ogni dettaglio, paura di perdere quello che dopo tutti questi anni avevo finalmente dentro di me. Adesso dorme beato tra le mie braccia mentre scrivo queste righe ed è perfetto così. A tutte le donne che stanno vivendo quest’incubo: provate fino a che ne sentite il bisogno, la speranza esiste. E se non ce la fate più va bene lo stesso. Non siete meno donne, non avete meno valore.
Io ho accompagnato una amica nella pma, le facevo le iniezioni e qualche volta, quando il marito non poteva, la accompagnavo in visita e ricordo perfettamente quell’ansia che si è insinuata subito in me, quella di trovarmi nella stessa situazione. Entrambe eravamo sempre state precise nel fare i controlli annuali eppure le tube si erano chiuse, nessuno se ne era accorto e non si poteva fare nulla. La pma era l’unica soluzione. Sono serviti tre cicli e ricordo la gioia ma ricordo benissimo quanto impegnativo e doloroso e’ stato per lei, fisicamente ed emotivamente, ricordo quanto fosse costoso economicamente, ero terrorizzata all’idea di doverla affrontare. Fortunatamente a me non è servita ma ho i brividi quando leggo che sarebbe una scorciatoia perché non lo è affatto.
Grazie per aver condiviso questa esperienza.
Ho rivissuto questa magia, con tutti i momenti bui e le grandi gioie.
Se ne parla ancora troppo poco..grazie davvero! L’ho letto con la mia bimba di 1anno e mezzo seduta accanto e con qualche lacrimuccia sul viso!
Non riesco ancora a parlare apertamente della mia pma e di tutto ciò che è stato prima dopo e durante..mi sono resa conto che alcuni step li ho anche rimossi dalla mia mente. Adesso voglio provare a liberarmi da questo macigno perché voglio chiudere il capitolo e conservarlo poi nel mio cuore. Sono mamma di Leonardo il mio bimbo “forte come un leone” come dice il suo nome perché tra mamme pma si dice spesso come augurio “ne basta uno, un embrione bello forte!!!”e quindi Leonardo è stato il mio embrione forte arrivato dopo anni. Poi la vita si è ribaltata e mi ha ridato tutto: lo scorso anno in questi giorni ho fatto i miei testi (6!) positivi…i primi test che non ho rotto in mille pezzi con il batticarne. E poi è nato Davide”colui che è amato”ed è arrivato così…senza che io facessi calcoli, senza che facessi la dottoressa di me stessa, è successo..e la vita ha scelto per me e mi ha lasciato di stucco…a me…proprio a me che sono una precisina, una organizzatrice…proprio a me che pensavo già all’ allattamento con Leo se avessi voluto intraprendere un nuovo percorso di pma….ci proverò, proverò a parlarne anche se la paura è che nessuno possa capire. La solitudine, la croce con cui mi marchiavo nei pensieri, il sentirsi una nullità. Grazie Alessandra per le tue parole. Sono quelle di tutte.
Grazie ❤️
Forse finalmente se ne inizia a parlare, purtroppo siamo sempre di più…
Io e il mio compagno siamo lungo la strada!
È difficile non solo emotivamente, ma è difficile anche venire a conoscenza di tutti i dettagli e di cosa ci aspetterà…
Per capire cosa significhi PMA ho dovuto cercare informazioni come se l’argomento fosse nascosto al mondo e scoprire le cose man mano che andiamo avanti o che ne abbiamo bisogno.
Per quanto mi riguarda la mia ginecologa ha dato per scontato che le cose si sapessero e sono stata io ad insistere; il mio partner non ha compreso cosa andavamo a fare finché non gli ho detto che doveva effettuare anche lui degli esami e siamo andati a fare le prime analisi insieme (lui è anche agofobico e gli ho dovuto anche dire che si deve fare coraggio… ); le nostre famiglie non sanno neanche di cosa stiamo parlando e continuano a pregare (cosa legittima, ma che in questi anni non ha ancora purtroppo portato alcun risultato).
Nutro tanta paura, poco conforto e nessuna comprensione!
Un percorso doloroso che forse pieno di speranza alla fine potrebbe portare luce e gioia ❤️
Mi ha fatto emozionare e ricordare le emozioni che ho provato negli anni della pma e poi di quella mattina alle 5:40 in cui, 4 giorni dopo il transfer, ho visto quella doppia linea blu. Ora quella blastocisti, un embrione di 200 cellule o poco meno, hanno 9 mesi, gattonano e mi fanno dannare ad ogni pappa, ma io amo e ho amato tutto, proprio come te compagna di viaggio e di avventura (a me piace declinarla al positivo).. ho goduto di ogni istante della gravidanza, mi è piaciuto il corpo che cambiava forma, accogliendo quella vita che mi prendeva a calci tutto il giorno! Che bel racconto! Grazie .. W la vita, w la scienza, grazie a tutti i medici, ostetriche, operatori, biologi, sanitari che ci aiutano a diventare mamme ❤️
È un percorso duro, faticoso, estenuante, sia dal punto di vista fisico che mentale. Chi non lo vive non può capire fino in fondo. Forse nemmeno mio marito si è reso conto della mia fatica.
Punture, pastiglie, sveglie, esami, richieste,punture, pastiglie, sveglie, esami, richieste.
Speranza, paura, dubbi, dubbi, paura, speranza. Non ci avevi mai fatto caso, ma ora vedi solo pance e tutto il mondo è incinta tranne te. Finché un giorno quella seconda linea arriva anche per te e il tuo cuore scoppia. E tutte le lacrime che hai versato, lacrime di delusione, rabbia, frustrazione, lacrime che non pensavi di avere più, diventano di gioia.